“La prima volta è stato terribile! Avevo 15 anni, e da un anno avevo perso mio padre. Ero sull’ autobus e mi stavo recando a scuola quando ho cominciato a sentire improvvisamente il cuore che sembrava volermi uscire dal petto e contemporaneamente una morsa alla gola, come se una mano mi stringesse fortemente il collo togliendomi l’aria. Al torace un dolore sordo, violento, le mani sudavano e tremavano, le gambe non mi reggevano più, la vista si annebbiava. Cosa mi stava accadendo? Era questa la morte? Stavo sicuramente morendo di infarto come mio padre! Ero atterrita e non riuscivo a chiedere aiuto e improvvisamente più nulla: la perdita dei sensi mi tolse da quella sofferenza e da quella insostenibile sensazione d’angoscia. Mi risvegliai con le voci e le mani delle persone che stavano tentando di soccorrermi. Mi ripresi provando un misto di sollievo nel constatare che non ero morta, ma con un profondo senso di vergogna e insicurezza che da quel momento non mi abbandonarono più.”
Un racconto come tanti, tutti simili, tutti accompagnati da una grande angoscia: l’idea che quei momenti possano tornare, che si possa ripresentare quella sensazione terribile di essere arrivati al termine della propria vita. E spesso in un momento di relax, magari in vacanza, o al ritorno da una serata passata con gli amici.
Negli ultimi anni è diventato sempre più frequente sentire racconti di esperienze di attacchi di panico non solo da parte di fratelli, amici e fidanzati, ma anche di personaggi pubblici. Raccontano che spesso gli attacchi si presentano improvvisamente, fulmini a ciel sereno, in situazioni normali che non implicano per forza un coinvolgimento emotivo legato a prestazioni lavorative e professionali. Una tale diffusione proprio in chi dovrebbe sentirsi riuscito nella propria vita impone inevitabilmente una riflessione sulla società e sulla cultura dei nostri tempi.
Gli aspetti fondamentali per la comprensione della genesi del problema sono:
1. L’ insorgenza del disturbo di panico in persone che non sembrano quasi mai avere percezione di un proprio stato di disagio esistenziale e che tendono a negare qualunque origine psichica della sintomatologia. Spesso abbiamo sentito dire:”Dottoressa, se tutto ciò che mi capita è davvero dovuto alla mia mente, ma allora devo essere proprio matto!”. Ci si trova di fronte a una evidente scissione tra mente e corpo. Tanto più potente e devastante appare il corredo sintomatologico neurovegetativo, tanto più profonda appare la cecità rispetto alla propria realtà mentale e al nesso tra questa e il corpo così sofferente. Ci troviamo di fronte a una incapacità di vedere che c’è una realtà più profonda, non solo quella cosciente.
2. Tale assenza di percezione di se è imputabile a una Alessitimia, cioè l’incapacità a esprimere e identificare le emozioni, la presenza di un pensiero orientato solo all’esterno, cioè verso i fatti concreti, raramente verso i propri processi psichici interni,proprie di coloro che tendono a sviluppare malattie psicosomatiche.
3. La presenza di un “falso se”, di una falsa identità che risulta spesso in una confusione e non definitezza di se, di cui però non sempre vi è piena consapevolezza. Il vero se è la nostra immagine interna mentre il falso se è quello della coscienza razionale, scissa dalla realtà non coscienze vissuta nel primo anno di vita che viene annullata, tagliata via dalla propria mente per carenze affettive del genitore.
4. Un’ansia/angoscia di separazione che di fronte a certi accadimenti esistenziali può manifestarsi come vera e propria angoscia abbandonica, grande difficoltà ad accettare le separazioni, a stare da soli, ad accettare i cambiamenti. Possiamo legare tale problematica di separazione all’esperienza del vuoto. L’esperienza di perdita, di sentirsi svuotati per aver annullato il proprio legame affettivo, si tramuta, nelle esperienze successive in una angoscia che si possa ripetere.
La malattia vera sta sotto i sintomi, gli attacchi di panico non sono altro che un segnale d’allarme, la rottura di un falso equilibrio nel quale regnano per anni false idee e convinzioni, e una identità zoppa caratterizzata da affettività carente. Bisogna quindi affrontare le ragioni più profonde non contenere la sintomatologia. Solo con un lavoro psicoterapeutico è possibile affrontare il problema del falso se, per ritrovare quello vero che può permettere di superare l’angoscia abbandonica generata dalle proprie ripetute pulsioni di annullamento. Il rapporto psicoterapeutico permetterà, seduta dopo seduta, l’aumento di vitalità che consentirà di realizzare la propria immagine interna, umana,dotata di affetti e curiosità che consentirà di consolidare la propria identità, sicura di se, autonoma, in grado di accettare le separazioni.
(Per approfondire “Attacchi di panico, il corpo che grida” L’Asino d’oro edizioni)